QUANDO UN RACCONTO DI VITA VISSUTA, DA RAGAZZINO, RENDE COPROTAGONISTA IL LETTORE

Via Undici febbraio di Ragusa Ibla, una cittadina di poche migliaia di abitanti del Val di Noto, anch’essa Patrimonio dell’UNESCO per il patrimonio Barocco che detiene.

Questa strada, da ragazzino, come anzidetto, la percorrevo tutti i giorni, per andare, a piedi, alla scuola elementare, una via colma di storia, per il nome che porta, e poi perché prima di arrivare in via Del Mercato, vi era una bettola, dove io ci andavo spesso a fine settimana, la sera, sempre da ragazzino a prendere il vino, per la punizione che mi impartiva mio padre, o mia madre, quando rientravo a casa, con le ginocchia sbucciate o sporco, dopo aver giocato al pallone con i miei compagni del quartiere, come “Pippu ca’ ci trema a vucca”, “Pippineddu Farina”, “Pitruzzu Narbuni”, “Tarenziu da Scalidda da via Giulia”, “Ghiugghiuzzu Carratidduzzu”, “Brasuzzu da via Torrenuova” e tanti altri, nel cortile di Sant’agnese, una delle trentasei chiese del Paese, sita difronte la casa dei miei genitori.

Con timore ed impaurito, entravo in quella taverna, la padrona era la ‘gna Stella, una donna giunonica, vestita di nero, la quale, all’anagrafe si chiamava Peppa, se non ricordo male, ma le piaceva molto il cognome del marito e lo aveva adottato come proprio; ‘A Gnà Stella stava all’ingresso dove c’era una botte grande, colma di vino per i clienti.

Alla sinistra vi era un ampio ingresso che dava in un’ampio stanzone, dove vi stavano i commensali, dediti a cenare, bere, persino ad ubriacarsi e giocare al “Toccu”.

La Gnà Stella era molto permalosa e appena sentiva gridare o insultare gli inservienti da parte di qualcuno dei clienti, lasciava perdere di versare il vino nel mio fiasco, si asciugava le mani con il “favulari”, prendeva un pezzo di legno, ovvero ‘u “Lasagnaturi” che serviva per stirare la pasta impastata e correva nel locale attiguo, dove stavano i clienti, mezzi ubriachi.

Prima di lasciarmi, la ‘gna Stella mi diceva:” Nun ti scantari, aspèttami ccà, vaiu da intra, ci fazzu quattro vuci, ci sbattu u lignu nto tavulinu, i fazzu scantari ppi falli stari muti e tornu!!!”; come risposta, abbassavo gli occhi, in silenzio per acconsentire e, appena sentivo i suoi gridi, i colpi di legno sul tavolino e lo scroscio di qualche bicchiere che cadeva a terra, mi spaventavo ed ero pronto a scappare, ma non appena, la vedevo tornare, tutta contenta e soddisfatta, per la lezione data, mi prendevo di coraggio, mi tranquillizzavo e tornavo sorridente a casa, col fiasco di vino.

Ancora non esistevano, negli anni cinquanta, le pizzerie e neanche i McDonald’s, ma solo bettole, locande e poi locali raffinati dove si andava per consumare un dolce e assistere ad esibizioni di cantanti, da “Piano bar” o di musica lirica.

Oppure al cinema, la domenica, con offerte speciali, “con un biglietto da 100 lire , 2 due films da vedere”. Ricordi di sana gioventù e non quella di oggi, all’insegna di movida non stop, “Coca, crac e bullismo”.

Ebbene, La scrittrice e poetessa siciliana di Pachino, Maria Bugliarisi, autrice del nota Fatica Letteraria siciliana “Talè chi ti cuntu!” ha scritto :”Tu e il tuo ricordo di ragazzino.

Una pagina che porta in quel tempo e in quel luogo. Niente di strano, perché in questo sei unico, proprio nel farmi partecipe e seguirti in questo nostalgico arco di tempo e vivere con te, quelle sensazioni. Sono entrata in quella taverna. Ho sentito la voce della gnà Stella.

Ti ho visto ragazzino, spaventato e poi rasserenato. Magia della scrittura”.

Oso definire il commento dell’Aedo degli Iblei, Maria Bugliarisi, toccante , commovente ed emozionante.

Catania li, 27.03.2025

.                                        Giuseppe Firrincieli

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