Pasquale Viscuso è un pittore del soprannaturale, è un uragano lirico e geometrico, incanalato su tela. Chi osserva i suoi lavori cercando figure, prospettive o geometrie convenzionali ha già perso in partenza: Viscuso non dipinge ciò che si vede, ma ciò che accade nell’anima quando lo sguardo smette di essere ottico e diventa interiore.
Siciliano fino al midollo, ma universale come ogni vero maestro, Viscuso affonda le sue radici in un humus culturale che è tanto Etna quanto Nietzsche, tanto mito quanto tech. La sua è una pittura astratta, sì, ma non fredda o cerebralmente analitica come quella di certa scuola europea post-informale, al contrario, nelle sue tele brucia il fuoco di Sicilia. C’è dentro il magma della sua terra, l’inquietudine esistenziale di chi ha visto la bellezza e non si accontenta di imitarla: vuole rifonderla.
Nel linguaggio di Viscuso c’è una liricità che non si esprime con le parole, ma con vibrazioni cromatiche, stratificazioni di materia, e tensioni che sembrano partorite da un rito sciamanico. Come scrisse una volta il grande Argan, “l’arte è quando la forma diventa destino”: Viscuso ne è un esempio vivente. La sua forma è istintiva ma non caotica, istintiva per necessità filosofica. Ogni colpo di spatola, ogni gesto pittorico è un atto di fede nella possibilità che l’invisibile si renda tangibile. E senza mai dichiararlo, esprime che anche il caos ha un ordine ed anche il silenzio, un suono.
Nel panorama dell’astrattismo contemporaneo italiano troppo spesso viziato da manierismi o da una compiaciuta sterile provocazione, Pasquale Viscuso emerge con una voce propria, autorevole e visionaria. Non c’è nulla di preconfezionato nel suo lavoro: ogni opera è un campo di battaglia dove si fronteggiano luce e abisso, equilibrio e furia, metafisica e carnalità. Eppure, miracolosamente, ne esce sempre un’armonia superiore.
Nel suo astrattismo lirico, Viscuso sembra dirci che l’arte non serve a spiegare il mondo, ma a salvarlo. Ecco perché le sue tele non si osservano: si ascoltano. Perché parlano un linguaggio antico e sacro, lo stesso dei profeti, degli alchimisti.
Pasquale Viscuso è un rabdomante del colore, un sacerdote dell’inesplicabile. In un’epoca in cui l’arte spesso abdica alla sua missione trascendente, lui resta ancorato a una visione in cui bellezza, dolore, memoria e sogno si fondono nel fuoco sacro della creazione.
E questo – mi si consenta – non è solo talento. È genio.
Melinda Miceli
Critico d’arte e saggista