Ventinove anni fa il giudice antimafia Giovanni Falcone veniva
ucciso a Capaci. Dalle sue indagini le più grandi vittorie contro
il crimine organizzato.
Il 23 maggio del 1992 ha segnato una delle pagine più buie della storia della Repubblica.
Sono quasi le sei del pomeriggio. Sull’autostrada A29 che dall’aeroporto di Punta Raisi, in
Sicilia, porta a Palermo, viaggiano tre Fiat Croma. A bordo, ci sono il giudice antimafia
Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicilio
e Antonino Montinaro. Con loro, gli altri membri della scorta Paolo Capuzza, Angelo Corbo
e Gaspare Cervello, assieme all’autista giudiziario Giuseppe Costanza.
La corsa delle tre vetture si arresta all’altezza dello svincolo di Capaci. Sotto all’asfalto è
stata piazzata mezza tonnellata di esplosivo. Un detonatore azionato dalla collina che
sovrasta l’autostrada scatena l’inferno: la carreggiata viene ridotta ad un cumulo di
macerie. Del convoglio, si salvano soltanto Capuzza, Corbo, Cervello e Costanza.
L’autostrada era sparita, al suo posto c’era un cratere
Antonio Vassallo, fotografo, è uno dei primi ad arrivare sul posto. Parlando alla stampa
internazionale in occasione del venticinquesimo anniversario della strage, nel 2017,
riannodava i fili della memoria: “Ho sentito l’esplosione, erano le 17:58. Sono saltato in
sella al motorino e mi sono trovato di fronte una scena mai vista, degna di un film
di guerra. Gli ulivi centenari sradicati da terra. Un pezzo di autostrada era semplicemente
sparito: al suo posto c’era un cratere”.
Finiva in quel modo la vita di uno dei più grandi protagonisti della lotta alla
mafia. Giovanni Falcone era nato a Palermo il 18 maggio del 1939. Nel 1961 si laureò in
giurisprudenza; tre anni dopo fu nominato pretore nella città di Lentini, quindi sostituto
procuratore a Trapani. Alla procura di Palermo il magistrato arrivò nel 1978, avviando una
stretta collaborazione con i giudici Rocco Chinnici e Paolo Borsellino: insieme tratteranno
centinaia di processi. Nel 1980 a Falcone venne assegnato il fascicolo che riguardava il
boss Rosario Spatola, i cui interessi avevano ramificazioni anche negli Stati Uniti.
Dopo l’assassinio di Chinnici, nel 1983, venne creata una struttura che, nel giro di pochi
anni, rivoluzionerà la lotta alla criminalità organizzata: il pool antimafia.
Gli anni del pool antimafia con Antonino Caponnetto e Paolo Borsellino
Ne fanno parte Antonino Caponnetto, che lo dirige, Giuseppe Di Lello Finuoli, Leonardo
Guarnotta e gli stessi Falcone e Borsellino. Un anno dopo, il celebre interrogatorio del
pentito Tommaso Buscetta permette una svolta nelle indagini su Cosa Nostra. Un lavoro
che consentì al pool di ricostruire l’intera catena di comando della mafia: responsabilità,
ruoli e volti della cosiddetta “Cupola”, il quartier generale della criminalità siciliana.
Giovanni Falcone era in possesso di una quantità gigantesca di informazioni. I mafiosi ne
erano a conoscenza e per questo lo misero nel mirino, cominciando con l’assassinio di
Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, due tra i suoi più stretti collaboratori. Per ragioni di
sicurezza, quindi, il governo impone ai giudici del pool e alle loro famiglie di trasferirsi in
totale segretezza presso il carcere dell’Asinara. L’unico posto ritenuto sicuro per poter far
continuare il lavoro ai magistrati e non indebolire l’impianto accusatorio che costituirà la
base del “maxi-processo”, avviato alla fine degli anni Ottanta nell’aula bunker del tribunale
di Palermo.
Il maxi-processo e la condanna a morte di Giovanni Falcone
Si è trattato del più grande processo contro la criminalità organizzata mafiosa mai tenuto
al mondo: 460 imputati, 200 avvocati difensori, quasi sei anni di lavoro. Conclusi con 19
ergastoli e pene per un totale di 2.665 anni di reclusione. Per la mafia è un colpo
devastante, ma molti boss, all’epoca, erano ancora latitanti. Tra di loro, il “capo dei
capi”: Totò Riina, che presiedeva le riunioni delle “commissioni” di Cosa Nostra. È in
questo contesto che, tra il settembre e il dicembre del 1991, si decise di uccidere Falcone,
assieme al ministro della Giustizia dell’epoca, Claudio Martelli, e al presentatore televisivo
Maurizio Costanzo, vittima a sua volta di un attentato dal quale si salvò per miracolo.
La strage di Capaci suscitò in tutta Italia un’ondata di sdegno. Ciò nonostante, Cosa
Nostra non si arrestò, finendo per colpire anche il collega e amico di Falcone, Paolo
Borsellino, che aveva raccolto il testimone delle indagini. Il giudice sapeva di essere
condannato e non a caso ripeteva ai suoi, lavorando giorno e notte, nelle ultime settimane
di vita: “Ho poco tempo”. Anche lui sarà ucciso dal tritolo mafioso, il 19 luglio 1992, in via
D’Amelio, dove si era recato per andare a trovare la madre. Una Fiat 126 imbottita di
esplosivo spezzò la vita di Borsellino, assieme a quella dei cinque agenti della scorta
Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio
Traina.
“È finito tutto”
Pochi giorni prima di morire, Borsellino ricordò Falcone in un discorso nell’atrio della
biblioteca comunale di Palermo, attaccando duramente lo stato e le sue istituzioni.
Parlando di “qualche Giuda che lo ha preso in giro” e affermando che “la sua morte l’avevo
in qualche modo messa in conto”.
Con Borsellino, se ne andò in quella calda giornata siciliana il più importante collega di
Giovanni Falcone. Il pool, che già formalmente non esisteva più, era di fatto disintegrato.
Il 24 luglio 1992, 10.000 persone si presentarono ai funerali di Borsellino, che furono
celebrati in forma privata dopo che i familiari del magistrato rifiutarono il rito di stato.
L’orazione funebre fu affidata ad Antonino Caponnetto, ex giudice di cui gli italiani non
potranno mai dimenticare lo sguardo, quando appena giunto sul luogo della strage in via
D’Amelio, stringeva il microfono di un giornalista, faticando a trattenere le lacrime e
scandendo: “È finito tutto”.
Vittoria Crisafulli, 2B secondaria
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