Intervista a Katia Tenti, “io e quel sogno di scrivere fin da bambina” di Laura Gorini

Scrivere è una delle forme artistiche più vicine all’essere umano fin dalla notte dei tempi

Ha all’attivo svariate pubblicazioni e l’ultima è l’intenso romanzo corale Resta quel che resta ( Piemme) che sta ottenendo ottimi consensi sia di pubblico che di critica. . Siamo negli Anni ’20 in Sud Tirolo e qui convivono svariate famiglie italiane che devono necessariamente vedersela con i tedeschi. Ed è tra le pagine del racconto, dettagliato e profondo, che troviamo il senso dell’amore per la patria per il quale si è pronti a lottare con tutte le proprie forze. Anche a costo della vita.

Katia, scrittrice con all’attivo svariate pubblicazioni. Ma quando hai capito che la tua strada fosse quella della scrittura?

A costo di sembrare banale, ammetto che sognavo di scrivere fin da bambina. E lo facevo in effetti! Ho iniziato a leggere molto presto, già in prima elementare. Leggevo per “punizione” dato che a scuola ero un po’ vivace. Ma in quelle che i grandi credevano essere punizioni io ci trovavo mondi meravigliosi. E in prima media ho chiesto a mia mamma di regalarmi una macchina per scrivere. Da lì in poi non ho mai smesso.

Si dice che oggi scrivano in troppi ma si legga in pochi. È davvero così?

È un dato di fatto che molte persone scrivano, se non altro perché anche pubblicare è diventato relativamente più semplice grazie alla nascita di molte giovani case editrici indipendenti. L’editoria fai da te ha ampliato ulteriormente le possibilità. È anche un fatto che in Italia si legge meno di quanto si potrebbe e che la TV e i social tendano a “mangiare” tempo che potrebbe essere impiegato – meglio secondo me – a leggere. Ma è anche vero che i dati ufficiali elaborati dall’ AIE – associazione italiana editori – ci segnalano anche per il 2022 una buona tenuta del settore. Ci sono intere fasce di popolazione che non leggono e anche di questo occorre tenere conto. Ovviamente il rapporto tra libri pubblicati e copie vendute si fa sempre più sottile.

Molti, faticando a trovare un editore, si affidano al self publishing, una tua opinione a riguardo?

L’editoria tradizionale soffre, a mio avviso, di una sorta di complesso di inferiorità nei riguardi dei Social. Una delle conseguenze è che trovare un editore diventa più semplice se sei un personaggio con già un discreto numero di seguaci: ti porti dietro il pubblico di potenziali lettori, per così dire. Se non sei uno di questi, per trovare spazio devi volerlo davvero. Tradotto significa non scrivere ciò che ti viene in mente, in base all’ispirazione, come la creatività vorrebbe: significa anche studiare il mercato. So che può suonare compiacente verso un’editoria più commerciale, ma non è così. Si tratta, piuttosto, di cercare storie originali, voci fresche in grado di trattare i secolari temi di interesse dell’uomo, come amore, benessere, dolore, da punti di vista diversi, nuovi e potenti.

Il self publishing è interessante per alcune tipologie di libri e autori: soprattutto professionisti. Non è una scelta di secondo ordine: al contrario, può essere la scelta migliore in alcuni casi. Ma quando ci si affida al fai da te senza cura del prodotto, che dire? Anche no! Che senso ha? Come book-coach seguo molti autori che hanno fatto una scelta consapevole con il self: ma sempre curando il libro in modo perfetto. Ci sono casi molto interessanti di autori famosi venuti fuori proprio da lì: autori rifiutati da case editrici che però avevano libri molto interessanti. Tanto che poi sono stati pubblicati!

Molte sono le piattaforme. Wattpad in primis, che permettono di farsi conoscere. Credi che la pandemia ci abbia indotto tutti quanti a scrivere di più?

Scrivere è una delle forme artistiche più vicine all’essere umano fin dalla notte dei tempi. Quella che sembra più semplice anche se non lo è: non nella misura in cui si scrive per scrivere. Va fatto in modo consapevole e competente se si vuole avere anche solo una chance di pubblicare. Saper scrivere come abbiamo imparato a scuola non significa saper scrivere un libro. Ci vogliono tecnica, conoscenza, esercizio e un giusto approccio. Che la pandemia abbia fornito uno spazio temporale dilatato a milioni di potenziali scrittori è vero: ma ora la pandemia è finita. Vediamo se tutti quelli che si sono affacciati al mondo della scrittura in quel periodo, andranno avanti nel tempo. Essere scrittore è una maratona, non uno sprint.

Un conto è scrivere e un altro pensare di pubblicare. Molti scrittori nel corso di alcuni incontri pubblici lo sostengono. Credi che in certi casi ci sia un po’ di spocchia nel fare una dichiarazione del genere e anche una mancanza di fiducia nelle nuove leve?

Forse c’è più paura della concorrenza! Chi pubblica un libro e magari ha un po’ di successo – ammesso che sappiamo cosa significhi avere successo – rischia di assumere un atteggiamento altezzoso, ma a mio avviso senza ragione alcuna. Soprattutto in Italia, dove gli autori veramente famosi e che possono vantarsi perché della scrittura hanno fatto un lavoro sono pochissimi. Siamo tutti sempre a rischio. Gli editori non sono benefattori: sono imprenditori. E quindi portano avanti un prodotto fintanto che vende. Dopodiché nessuna beneficenza.

Però è vero che scrivere e pubblicare sono due momenti molto distanti tra loro, che spesso non convergono. Pubblicare è molto difficile: il mercato è saturo e, come ho detto poco fa, le case editrici fanno parte di un sistema che non necessariamente è culturale. Ma scrivere per arrivare a pubblicare lo è ancora di più: troppi aspiranti scrittori sottovalutano il livello minimo necessario per poter arrivare ad essere scelto da un editore.

C’è tanta competizione nell’Editoria?

Sì, tantissima! Ma in quale settore non c’è competizione? E comunque c’è anche spazio per le nuove iniziative. Anche quest’anno sono nate diverse realtà editoriali giovani e non, molto interessanti. Certo non si piò dare nulla per scontato. E come sempre, alla fine, vince chi resiste, chi studia, chi si prepara, chi non si lascia scoraggiare dai fallimenti, chi cade e sa riprendersi. C’è anche chi vive di rendita: ma sempre meno, temo.