IL PANE LENTINESE

Per il periodico Informa Sicilia a cura di ‘Mbaruzzo   ***      ***      ***

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Sfogliando le pagine di un vecchio libro, cade a terra un foglio un po’ ingiallito fotocopia di uno scritto di un grande lentinese, per origini, che forse i giovani d’oggi neanche conoscono o ricordano :    Turi Vasile.

Turi Vasile nasce a Messina nel 1922, lentinese per parte di padre , scrittore, scenografo, regista, produttore, presidente dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico, ha vissuto per molti anni a Roma dove muore nel 2009 ma non ha mai dimenticato la sua Lentini,  che amava definire  “ patria di celebrati tarocchi “ .

Tengo a precisare che questo scritto è stato già pubblicato  sul settimanale “ La Città“  e sul sito internet  dello Slow Food Lentini.  “ Perché negli anni venti  il pane di Lentini era giallo ?  Parlo del pane della mia fanciullezza, quando sul finire del mese di Settembre andavamo a trovare il fratellastro di mio padre Ciccu e di mia madre Cicca. Le scuole allora aprivano tardi, in concomitanza  con l’anniversario della scoperta dell’America, il 12 Ottobre 1492. Con la visita agli zii contadini si concludevano le vacanze; non poteva essere compimento migliore di quello che ci consentiva di partecipare alla vendemmia.

Io personalmente tuttavia mi sentivo attratto da quel pane di colore giallo e di un tale gusto che a me pare, al ricordo, di non averne mangiato di migliore in tuta la mia vita. Certo i ricordi sono come i cibi dei ruminanti , dei quali , quando ritornano in bocca, si scoprono e si apprezzano i sapori meglio della prima volta. Così il pane giallo di Lentini ogni volta che torna alla memoria mi pare riveli e accresca il piacere che mi dava nei miei sette-otto anni. Quel pane dunque mi piaceva ad ogni modo, sia solo; sia con acqua e zucchero, secondo mia madre ottima e nutriente merenda; sia inzuppato nella granita di limone o di mandorla; sia bagnato nel vino – appena però , a causa della mia tenera età, – mentre zio Ciccu immancabilmente diceva: “ Pani e vinu  –  rinforza ‘u schinu ” ; sia accompagnato da alivuzzi cunsati o da cipolla rossa di Tropea o da sarde salate o da un pezzo di tuma; sia per spegnere l’incendio che si sprigionava in bocca mangiando peperoncini piccantissimi.

Questo dei pipi ardenti mi restò impresso nella mente come un piatto d’obbligo della Lentini di quell’epoca, poi che i peperoni dolci erano banditi: come ortaggi insipidi per palati da femminuccia. Per questo ne mangiai anch’io, dimostrando di essere già uomo, inghiottendo le lacrime virili che mi scendevano giù per le gote: ma ne quelle lacrime ne il vino alleviavano il fuoco del palato, solo bocconi di mollica di pane giallo ne attenuavano la ferocia. Sulle prime pensai che quel colore fosse dovuto a tuorli d’uovo con cui forse mia zia impastava la farina. Un giorno glielo domandai e lei mi disse ridendo come per dire no. Non volle però soddisfare la mia curiosità, forse perché neppure lei ne conosceva il segreto: se a causa della qualità del grano duro da cui la farina proveniva, se per l’aggiunta di mais o che so altro. Certo che anche oggi, preparando questa mia testimonianza nessuno dei miei amici e concittadini lentinesi ha saputo darmene spiegazione. Era quel pane, sodo, compatto, senza i buchi tipici dei pani caserecci, formava vasteddi gonfie, nel dorso  delle quali, le donne incidevano col coltello, prima di infornare, un segno di croce.

Quel che sentii dire, me lo ricordo, era che quel pane, principalmente destinato agli uomini che andavano a coltivare i fondi lontano da casa, doveva durare sei giorni, dal lunedì al sabato, senza raffermarsi troppo. Era, tradotto in termini di oggi, pane a lunga conservazione …

Zia Cicca impastava la farina nel forno pubblico, a legna si capisce, dove la lasciava lievitare per tornarvi quando era il suo turno. Uomini seminudi provvedevano con pale dal lungo manico a disporre le pagnotte nella bocca arroventata; e vi aggiungevano qualche capretto con le patate degli agiati, o le focacce come quelle che zia Cicca preparava. Queste focacce avevano un nome che penso resista ancora:  cudduruni, e custodivano, tra le due sfoglie, ripieni di broccoli già ripassati in padella con aglio, olio, olive nere e peperoncino o di cipolle cotte nella salsa di pomodoro a comporre la cosiddetta cipuddata  .  Mia madre suggerì alla cognata u cudduruni di origine parzialmente messinese, con ripieno di scarola cruda condita con la tuma, formaggio fresco non salato. Ho detto “ parzialmente ”   perché a Messina le focacce con la scarola sono fritte, non infornate.

Come ancora mi sembrano leccornie quei cibi dei miei parenti contadini !

Oltre ai peperoni e alle focacce, per tornare al pane mi piaceva lasciarlo ammollare nel maccu . E’, il maccu, una specie di purè ottenuto con le fave secche sgusciate e cotte a fuoco lento e lungo: pietanza mai dimenticata a distanza di tantissimi anni. E dopo il turbinio dei decenni passati lontano da qui e in gran parte in giro per il mondo, sono pronto a rinunciare – ahimè solo metaforicamente perché il tempo si revoca ma non si cancella – a tutti i croissant, a tutte le brioche e baguette, ai panini pepati, farciti, spolverati di sesamo, alle forme più variate di pane bianco, bruno, rosso, nero – tutto in cambio di una fetta di pane giallo di Lentini, appena  sfornato, da condire con sale grosso da cucina e un fiotto di olio nostrano sgorgato da una stagnola; e assaporare beato il pane della mia fanciullezza, condito di fatica e povertà.  “

Leggendo queste righe  anch’io mi sono ritrovato, come Turi Vasile, a ricordare i tempi passati, le gioie delle cose semplici, quando ci si accontentava di poco ed e si era felici.

Lentini era fiorente e si vantava di essere un grosso centro agricolo-commerciale, l’apice del grande triangolo agrumario e, come la definisce lo stesso Vasile, “ patria di celebrati tarocchi ”  .

Oggi riflettendo, pur ricca di tradizioni ,  la vedo triste e rassegnata ad un fausto destino; incapace di risorgere dalle proprie ceneri, come ha sempre fatto dalle origini sino a qualche decennio fa’.

Lentini e i lentinesi hanno scordato le proprie tradizioni che potrebbero essere il volano per una nuova  economia fatta di prodotti della terra e di trasformati, nel rispetto delle antiche regole del fare semplice e bene per ottenere il meglio,  in questo mondo così globalizzato dove oggi ognuno, stanco di derivati industriali, è alla continua ricerca di antichi sapori, delle tradizioni scordate che potrebbero essere l’opportunità per un nuovo sviluppo e una nuova rinata economia.

  ‘Mbaruzzo